Un nuovo Umanesimo

VERSO UN NUOVO UMANESIMO

– la Comunità di Sant’Egidio tra la Sicilia, il Mediterraneo ed il mondo – 

di Andrea Riccardi 
Messina, 10 marzo 2006

Cari amici, 
sono molto grato della vostra presenza a questo incontro che le Comunità di sant’Egidio della 
Sicilia hanno voluto organizzare. Ringrazio mons. Marra, arcivescovo di Messina, per la sua 
presenza, lui che è un vecchio amico della Comunità fin dagli anni Settanta a Roma, sempre così 
cordiale e affettuoso. Ringrazio il Prefetto S. E. Stefano Scamacca, il Sindaco Avv. Francantonio 
Genovese.

Una storia non breve
La storia di Sant’Egidio è quasi giunta al suo quarantesimo anno. Siamo nati nel ’68, nel clima di cambiamento utopico del ’68. Tutto era politica: così si diceva. Ma la spinta del ’68 al cambiamento sarebbe naufragata – così ci sembrava dai primi anni – se non avesse affrontato l’antico e sempre nuovo problema del cuore dell’uomo: cambiare se stessi. Cambiare se stessi non è rinunciare a cambiare il mondo. Anzi, molti hanno rinunciato a rendere migliore questo mondo, perché non si confrontano seriamente con se stessi. E’ l’intuizione profonda di Martin Buber: “Cominciare da se stessi: ecco l’unica cosa che conta… il punto di Archimede a partire dal quale posso da parte mia sollevare il mondo è la trasformazione di me stesso”. 
La nostra storia è cominciata con il prendere sul serio il Vangelo, o almeno provare a farlo: ascoltare la Parola di Dio, cambiare se stessi, aprire le dimensioni della nostra esistenza ad essa. 
Dice l’apostolo: “sulla tua parola, Signore, getterò le mie reti”. Questo ha significato far crescere in noi quella dimensione dello spirito, della preghiera, della liturgia, della vita della Chiesa, che ci hanno modellato in profondità come comunità cristiana. Non so cosa farà in futuro Sant’Egidio, ma credo che la sua vera immagine è essere riunita ogni sera in preghiera con i suoi amici o chi viene.
La si vede oggi nella basilica di Santa Maria in Trastevere a Roma, ma anche a Messina, a Catania, a Palermo, L’Avana a Cuba, a Conakry in Guinea, o a Barcellona o altrove. Scriveva Vladimir Soloviev: “la fede senza le opere è morta e la preghiera è la prima opera e il prncipio di ogni azione”. Così oggi le Comunià di Sant’Egidio, spesso nel cuore delle città o nelle periferie, sono uno spazio di preghiera aperto. 
La Parola di Dio fa risorgere la dimensione perduta dell’uomo contemporaneo o ridotta alla psicologia o a un sentimento vittimista: il cuore. E’ quella trafittura del cuore che provò a Gerusalemme chi ascoltava Pietro dopo la Pentecoste, quella di un cuore che rinasce. Infatti questo nostro mondo è spesso un mondo senza cuore. In un uomo senza cuore, le mani, la mente, la psicologia, acquistano un ruolo squilibrato. Un uomo e una donna senza cuore non sanno guardare in faccia l’altro, commuoversi, capirlo. La violenza nasce in uomini senza cuore. La disperazione cresce in un mondo senza cuore. Ma la Parola di Dio fa risorgere il cuore che, secondo la visione biblica, è il centro della vita dell’uomo. Un grande vescovo di Roma, Gregorio Magno, in tempi tutt’altro che tranquilli, il VI secolo, mentre il suo mondo romano andava disperando, invitava a trovare un forte riferimento personale nella Parola di Dio: “Che altro è la Scrittura se non la lettera di Dio onnipotente alla sua creatura? Leggila dunque con ardente amore. Cerca, ti prego, di meditare ogni giorno le parole del tuo creatore. Impara a conoscere il cuore di Dio nelle sue parole”. 
Nelle grandi transizioni di civiltà il problema non è prevedere tutto il futuro (gli eventi sono spesso imprevedibili) ma avere un saldo orientamento. Abbiamo progressivamente cominciato a maturare il senso che nella Chiesa più che attivisti o protagonisti bisogna essere discepoli, coloro che ascoltano il Maestro. Il cristiano è stato chiamato così ad Antiochia, ma è nato ben prima come discepolo in Galilea. Ciascuno di noi è sempre discepolo ed ha sempre bisogno di ascoltare, perché la fede viene dall’ascolto. Questo ha rappresentato il motivo della continuità di Sant’Egidio, perché Sant’Egidio non ha voluto essere un’agenzia di mediazione internazionale, né un’esperienza di socializzazione giovanile o di volontariato adulto (che non disprezzo), ma una comunità di donne e di uomini che si ritrovano in ascolto della Parola del signore. L’affievolirsi di tante vite cristiane, l’intimo adattamento alla mentalità corrente, la caduta di passioni vere e di valori, nasce dallo spegnimento del discepolo e dell’ascolto. Non ho più bisogno di ascoltare perché sono qualcuno, perché sono adulto. Qui si addormenta il cristiano! O il cristianesimo diventa un riferimento culturale. 

Amici dei poveri
Le nostre Comunità oggi vogliono essere uno spazio di preghiera vissuto e offerto. San serafino di sarov, il san Francesco del mondo russo, diceva che la pace è frutto della preghiera: “Acquista lo spirito di pace in te e migliaia attorno a te troveranno la salvezza”. Tanti troveranno, fin da ora, un’ancora di salvezza e di pace. I primi amici della Comunità sono stati i poveri. Negli anni Settanta la speranza, anche nel nostro mondo cristiano, è stata spesso ideologizzata. Il servizio ai poveri veniva considerato un anestetico che impediva la soluzione radicale delle contraddizioni sociali. I poveri erano un problema politico o sociologico. La nostra storia si è sviluppata a partire dai poveri della periferia di Roma. L’incontro con il povero, che viveva nelle baracche e nelle periferie, è stato decisivo per noi giovani bene. L’uomo e la donna delle periferie andavano rimessi al centro della vita. 
Spiritualità e solidarietà si sorreggono a vicenda. Le difficoltà di tante istituzioni cristiane di impegno sociale sta proprio nell’aver perso questo rapporto vitale: così i volontari calano e i poveri sono trattati come utenti di un servizio sociale. Sono convinto infatti che non c’è solidarietà durevole senza spiritualità o fede vissuta. Dove c’è una Comunità di Sant’Egidio lì c’è amicizia con i poveri: lo spirito del nostro servizio non è quello di un’istituzione verso gli utenti, ma è quello dell’amicizia e della parentela, insomma, lo spirito di famiglia. Non voglio fare qui una rassegna anche rapida dei tanti mondo di poveri incontrati nella storia di quasi quarant’anni. Sono uomini, donne, i bambini: volti dolenti, situazioni familiari dure… 
Tra questi la grande povertà europea, gli anziani: coloro a cui il nostro progresso concede di vivere sempre più a lungo, ma a cui, in mille modi e subliminali, viene comunicato il messaggio che sono di troppo. L’Europa sembra stanca dei suoi vecchi e spesso li confina in una periferia della vita, vicina alla morte, i cronicari. In fondo, i due aspetti più dolenti della vita sono l’inizio e la fine, quelli della debolezza. Un’altra grande povertà, di cui i siciliani e gli italiani sono stati e sono ancora protagonisti, sono gli emigranti: gente che ingrossa le periferie del nostro mondo: un tema su cui sarebbe necessaria una nuova e grande riflessione. E’ certo che la qualità dell’impatto e dell’accoglienza verso gli emigranti determina fortemente il loro inserimento e la loro partcipazione alle nostre società. Le immigrazioni (che talvolta oggi sono delle invasioni, nel senso che sono flussi che non si fermano) rappresentano una realtà di questo ostro mondo globalizzato. Una povertà d’altro genere – lo dico per inciso – è lasciare i giovani senza speranza per il futuro. 
In una città in cui di eliminano e si ospedalizzano gli anziani, si nascondono i morenti, si vorrebbe eliminare la presenza dei poveri: è uno scandalo che i sani e i benestanti siano costeggiati da malati e deboli. I mendicanti danno fastidio. Gli zingari pure, anche se poi riconosciamo cittadinanza a tutte le diversità. C’è un orrore per la debolezza e la fragilità, che è odio per una dimensione fondamentale dell’esistenza umana. I cristiani invece sono lo spazio dei poveri, dei deboli, dei periferici. Nella Chiesa i poveri non possono essere periferici. Giovanni Crisostomo, grande Padre d’Oriente del IV secolo, ricorda come i palazzi del potere siano frequentati da personagi ragguardevoli, ma afferma: “nelle vere regge, parlo della chiesa e dei santuari dei martiri, si trovano gli indemoniati, i mutilati, i poveri, i vecchi, i ciechi, gli storpi”. Per questo gli ambienti dei poveri sono stati sempre vicini a quelli della preghiera. Paolino da Nola, un ricco romano fattosi monaco tra il III e il IV secolo, costruì la sua casa monastica al secondo piano dell’ospizio per i poveri. Paolino ricorda i grandi pranzi per i poveri tenuti nelle chiese, come quelli che ogni anno celebriamo per il Natale mostrando che i poveri non sono periferici, ma l centro della vita della chiesa.
L’amore per i poveri riempie la vita e ridà il cuore. Ho visto tanta gente, a cui non mancava nulla, ma che per rassegnazione e depressione scivolava nella periferia della vita: invece ha ritrovato speranza nell’amor per i poveri. Ho visto anziani che riempiono la vita di gente che era svuotata. Ho visto la gioia che i disabili possono comunicare a chi vince il muro dell’apparenza. Ho visto l’accoglienza agli emigrati delle nostre comunità trasformarsi in un movimento con gente di etnie e di religioni diverse, Genti di Pace, che si fa sostenitore di un’integrazione giusta. Con i periferici e i poveri si comincia con il dare, ma si finisce per ricevere. Perché una vita lontano dalla debolezza non è garanzia di felicità. 

Un tempo di paura e rassegnazione?
Eppure il nostro mondo comincia ad avere paura. La paura provoca un ripiegamento su di sé. E’ quanto sta avvenendo in Europa. Siamo in un tempo in cui si parla molo di scontro di civiltà e di religioni. Che possiamo fare? Alla fine ci si sente periferici della storia: ci si rassegna e ci si sente vittime di una storia in cui non contiamo niente. Chi conta? Poco l’Italia, poco la Sicilia… Quello che cresce è il senso di essere irrilevanti. Eppure siamo quotidianamente interpellati. Con la globalizzazione, notizie di ogni parte del mondo ci raggiungono: che posso fare o dire? Ci sentiamo impotenti e senza risposte. Anche le crisi si scaricano lontano su di noi: si pensi al terrorismo che può colpire come un ladro di notte senza reali motivi di conflitto. Così le presenze nuove accanto a noi ci fanno paura. La risposta rassicurante sembra chiudere il più possibile le porte del proprio mondo. 
Questo malessere attraversa non solo le nostre società italiane, ma tante parti del mondo. Lo ritrovo in Africa, dove Sant’Egidio è presente in circa venticinque paesi. Lo ritrovo tra le minoranze cristiane in Pakistan e Indonesia dove abbiamo alcune nostre Comunità. Lo ritrovo in America Latina, dove ci si sente periferici della storia. Ma anche lo ritrovo in vari paesi d’Europa del Centro e del Nord, dove pure siamo presenti. I mondo e le regioni sono diversi, ma non siamo tutti ammalati di paura e di rassegnazione verso il futuro? 
Gli interrogativi sul futuro sono tanti. Anche le questioni personali che si debbono affrontare sul proprio domani, specie i più giovani, ma non solo: poche possibilità di lavoro, una famiglia più debole, una società più complessa… In questo clima muoiono i sogni, tanti sogni per sé, un mondo migliore. Ma insegnava il grande maestro ebraico Hillel: “se ti trovi nella circostanza in cui non ci sono uomini, sforzati di essere uomo”. forse, in questo momento difficile, abbiamo la responsabilità di essere uomini. E l’apostolo Paolo, nella conclusione della prima lettera ai corinti afferma (può sembrare quasi un tono maschilista): “comportatevi da uomini, siate forti. Tutto si faccia tra voi nella carità…”. Per lui essere uomini, forti, si coniuga con la carità. 
La forza non è quella dei violenti, che lasciano il mondo ancora più ferito. Non è quella degli arroganti, anche se sembrano una risorsa rassicurante per tanti deboli. La forza non è quella dei venditori di soluzioni per tutto, come un tempo facevano le ideologie (che garantivano uno sviluppo scientifico della storia), o come fanno i leader più o meno democratici. C’è una forza cristiana che viene dal Vangelo: siate uomini e siate forti! Siatelo quando mancano gli uomini e quando si è deboli e rassegnati. Questa forza si trova nel prendere personalmente sul serio il Vangelo, nel ritrovare un cuore. E così si prendono sul serio anche gli uomini. 
Per il 2000 mi sono messo a lavorare sui nuovi martiri del XX secolo. Ho preparato un volume. Credevo di conoscere la storia del cristianesimo di quel secolo, ma ne ho scoperto la sofferta profondità. Si va dal milione o due di cristiani russi uccisi nella missione del Vangelo o nel servizio per i poveri, ai martiri del nazismo, ai cristiani uccisi nel cuore della violenza, ai martiri dell’amore come don Andrea Santoro, prete di Roma e amico dei turchi… i preti, i vescovi, i cristiani sono tornati a morire nel Novecento. Questi nuovi martiri sono abitati da una forza: una forza debole o umile che è anche la nostra eredità. E’ in nome loro che Giovanni Paolo II disse all’inizio del suo pontificato: “non abbiate paura”. 
Scrive Nicu Steinhardt, cristiano rumeno vittima della violenza di Ceausescu: “Vado su tutte le furie quando vedo in che modo il cristianesimo è confuso con la stupidità… come se il destino del cristianesimo non fosse altro che quello di lasciare l’umanità beffata dalle forze del male…”. Con la rassegnazione ci si fa beffare dal male. Se non si assume una dimensione personale di fede, si è ciechi di fronte al male oppure – come capita in alcuni mondi religiosi – i si fa accecare dalle passioni fondamentaliste e fanatiche. Perché il fanatismo è come la droga di fronte allo squallore e all’assenza di futuro della propria vita e del proprio mondo. Non possiamo lasciarci beffare dal male. 

Da periferia a cuore
Si potrebbe obiettare: in questo mondo globalizzato, siamo ridotti in tanti ad essere periferia… le decisioni vengono prese altrove. E’ solo metà della verità. In realtà – ed è la nostra esperienza di Sant’Egidio – anche chi è periferico può diventare un soggetto che si pone con forza nella storia. 
Nel caso della guerra, vediamo come tanti oggi possono fare la guerra; ma anche tanti possono fare la pace. Nel mondo globalizzato non bisogna essere solo potenti o centrali per giocare un ruolo positivo. E’ l’esperienza della Comunità in vari conflitti africani, tra cui quello in Mozambico, dove la nostra mediazione tra governo e guerriglia ha posto fine nel 1992 ad un conflitto che durava da più di dieci anni e che ha prodotto un milione di morti. Ed oggi Sant’Egidio è una risorsa di pace per varie situazioni di conflitto. 
Non ci possiamo lasciare beffare dal male, che riempie di terrorismo, di odio, di contrapposizioni le scene del mondo. Spesso è la nostra rassegnazione e la nostra paura che ci condannano a essere periferici della storia e della vita. Lo ripeto: “se ti trovi nella circostanza in cui non ci sono uomini, sforzati di essere un uomo”. La testimonianza che Sant’Egidio intende dare, a partire dalla sua esperienza e dal Vangelo vissuto come un dono e una forza, è che ci si può sforzare di essere uomini quando mancano gli uomini o quando gli uomini si disumanizzano. Questo è vero nelle nostre città, che spesso si disarticolano in mondi periferici, dove cresce la rassegnazione e talvolta la rabbia. Questo vale nel mondo in cui siamo, cioè l’Italia e soprattutto il Mediterraneo. 
Non basta nascondersi dietro il nome di Dio: “Non chiunque mi dice: signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio…” – dice Gesù al termine del discorso della montagna. Il nome di Dio non è qualcosa da brandire contro gli altri per difendere noi stessi. 
Ma il nome di Dio ci apre alla fede e ad un atteggiamento d’amore per l’altro. Non ci fa cadere nella logica dello scontro o del nemico. Don Pino Puglisi, un prete siciliano caduto mentre lottava per sottrarre giovani periferici al fascino e al dominio della mafia e della cultura della violenza, una volta confidò ad un suo amico: “Alla fermata dell’autobus vedo passare certe facce e mi chiedo: anche questo è mio fratello?”. Insomma anche un uomo di periferia – e non lo era don Puglisi a Brancaccio? – se ha cuore, può essere nel cuore della storia, dare cuore alla storia, entrare nel cuore della storia. Se si trova forza in quello che vale, se si ama, non si è condannati ad essere periferia della vita e della storia. 

Sant’Egidio e il Mediterraneo
Oggi il mondo mediterraneo sembra destinato ad essere il confine del conflitto tra due mondi, quello occidentale e quello cristiano: è il mare dello scontro di civiltà? Passa di qui la nuova Yalta dopo l’89? Il Mediterraneo, per sua storia, non accetta soluzioni semplici. Oggi ci si confronta tra l’opzione di uno scontro con il mondo islamico e quella del cosiddetto dialogo. Ma l’Islam non è solo un mondo compatto, ma sono tante culture, Stati, regioni, tendenze, gruppi, donne, uomini. Certo – ben lo sappiamo – è attraversato da una corrente radicale, talvolta estremista e terrorista. 
Che cosa possono fare i cristiani? Penso che non possiamo elevare un muro né in senso fisico né in senso culturale. Sarebbe regalare il mondo musulmano alla sua parte estremista. Bisogna parlare con le sue differenti parti: parlare al cuore degli uomini spirituali, parlare alla ragione dei realisti, all’interesse degli operatori economici, all’umanità di tutti. Se il dialogo è parola che sembra troppo accademica, usiamo l’espressione incontro: sulle rive del Mediterraneo bisogna creare luoghi di incontro a tutti i livelli, facendo scoprire la ragionevolezza della pace e del rispetto della altrui libertà, ma anche mostrando come la pace sia al fondo delle diverse tradizioni religiose. 
L’incontro non è un negoziato e, quindi, non dà immediati risultati. Ma l’incontro semina pace. 
Talvolta incontrare trattiene l’altro più di un muro. Bisogna evitare i giochi mediatici per cui l’altro diventa un nemico, perché appartiene a un popolo o a una religione. Che c’entrano i cristiani nigeriani con le vignette che ha pubblicato un giornale danese? Quando vedi in faccia, quando parli con lui, si riducono gli odi e i pregiudizi. E’ la via che Giovanni Paolo II indicò ad assisi nel 1986 e che riprese nel 2002, dopo gli attentati dell’11 settembre, per dire che le religioni non possono lasciarsi andare alla follia della guerra. Dopo quel 1986, Sant’Egidio ha continuato il cammino di Assisi, anno dopo anno, invitano i leader mondiali a parlare di pace e a pregare per la pace. Ha chiesto anche ai laici di partecipare a questo dialogo, perché in Europa non è possibile parlare di un futuro giusto e di pace senza tener conto del pensiero laico. Più volte abbiamo fatto tappa sul mediterraneo, a Malta, a Bari, a Gerusalemme, Palermo, invitando gli esponenti religiosi cristiani, 
ebrei e musulmani dei paesi mediterranei. Nel 2002, per l’incontro di Palermo, Giovanni Paolo II scrisse (abbiamo diciotto testi piuttosto lunghi del papa in proposito e serbo il ricordo di varie conversazioni): “Ringrazio la Comunità di Sant’Egidio per il coraggio e l’audacia con cui ha ripreso lo spirito di Assisi che di anno in anno ha fatto sentire la sua forza in diverse città del mondo. Grazie a Dio, non sono pochi i casi in cui lo spirito di Assisi, favorendo il dialogo e la mutua comprensione, ha portato frutti concreti di riconciliazione. Siamo, pertanto, chiamati a sostenerlo e diffonderlo, percorrendo i sentieri della giustizia e contando sull’aiuto di Dio, che sa aprire strade di pace là dove non riescono gli uomini.” 
Il dialogo e l’incontro non sono un sogno di anime belle. C’è chi ha paura, come ha dichiarato in uno dei suoi comunicati farneticanti con tono di sfida proprio Bin Laden: “loro vogliono il dialogo, noi la morte”. Non è secondario che gli uomini di religione rispondano a questo. E l’appello che si levò da Palermo, firmato da quasi duecento leader religiosi, recitava: “Molti uomini e molte donne, presi dalla paura per il futuro, si sono lasciati trascinare nella rassegnazione e nel pessimismo. Noi, come uomini di religione e come cercatori di pace, siamo consapevoli dell’enorme potenziale di male che è racchiuso nel nostro mondo. E’ facile lasciarsi 
trascinare dalla violenza, dallo scontro degli uni contro gli altri, dall’opposizione di un mondo contro un altro, dallo scontro di una religione contro un’altra… Il mondo intero ha bisogno di speranza. La speranza di poter vivere con l’altro, la speranza di non essere dominati dalla memoria dei torti subiti, la speranza di costruire un mondo in cui tutti possano vivere con dignità… Il dialogo non lascia indifesi: protegge. Non indebolisce: rafforza. Spinge tutti a vedere il meglio di sé e a radicarsi nel meglio dell’altro”. 
Soggetti di questo processo che avvicina e che spinge a non contrapporsi possono essere tutti: le città, le regioni, la Sicilia, le Chiese, le comunità… Il Mediterraneo è stato un mare di scontri tra mondi e tra interessi; è stato il mare della seconda guerra mondiale; è stato anche il mare di incontri. 
Il suo futuro non è nella natura, a nelle scelte degli uomini. Un siciliano di grandi visioni come son Luigi Sturzo scriveva nel 1958: “Avvicinare il Mediterraneo vuol dire capirlo, amarlo, conquistarlo non al potere, ma alla civiltà; com’è possibile che l’Europa possa essere concepita tutta al Nord… quando parte delle forze di equilibrio internazionale vengono e verranno ancora di più dal sud euro-afro-asiatico? E non dico altro: il mondo arabo è lontano ed è vicinissimo all’Europa… Gli ignoranti possono sorridere a queste evocazioni; ma le persone sensate sanno che l’Europa venne dall’Ellesponto e non potrà mai fare a meno delle porte di entrata: Bosforo, Suez, Gibilterra; la piccola Europa, oggi e domani non importa, chiamerà la grande Europa, e questa batterà alle tre porte non come a proprie serrature di clausura, ma come a veicoli di civiltà.” 
Il dialogo deve scoprire non un altro sul Mediterraneo, ma i tanti che vi vivono. Bisogna difendere le differenze. Una differenza è la presenza dello Stato ebraico. Ma l’altra differenza, la vera alterità nel mondo musulmano, è la presenza dei cristiani. Questi sono in quasi tutti i paesi mediterranei, più consistenti in Libano; ma diminuiscono sia per la forte spinta ad immigrare che per la crescita demografica islamica. Ebbene noi di Sant’Egidio pensiamo che bisogna vivere la solidarietà con questi cristiani orientali che sono un garanzia di pluralità in paesi che rischiano di divenire tutti musulmani. La politica dei nostri paesi europei ignora questi cristiani: ci si è chiesti quale fosse la ricaduta della guerra in Iraq su di loro? 

Al di là del Mediterraneo
Sant’Egidio ha desiderato radicarsi in Sicilia non solo perché il suo messaggio è stato accolto dai siciliani, ma perché qui ha trovato un genio dell’incontro, che non vuol dire svendita della propria identità. Infatti solo le identità mature sono capaci di incontro. Ma in Sicilia ha trovato una grande apertura, che viene dal fatto di essere collocati, anzi esposti ai venti dell’alterità. La Sicilia, per la sua collocazione e il suo genio, suggerisce direttiva di contatto e di politica che non sono state ascoltate o ben rappresentate. E’ stata troppo a lungo considerata una periferia dell’Italia prima, dell’Europa poi. Ma l’Italia, come l’Europa, non ha un suo centro, ma è fatta dell’intelligente armonia delle sue parti e dei suoi geni. In realtà la Sicilia è un varco verso l’altro. Può essere un ponte. 
E qui non penso solamente al mondo mediterraneo, dove la cultura siciliana può esercitare un grande ruolo. Dalla Sicilia si vede oltre il mediterraneo. Lo diceva un altro grande siciliano, Giorgio La Pira (per certi aspetti un carattere contrario a quello realista di Sturzo). La Pira diceva che l’Africa, anche quella subsahariana, è presente nel Mediterraneo con il suo soffio e che questo mare lega l’Europa a tutta l’africa. Ce ne accorgiamo oggi con l’emigrazione africana, anche da lontanissimi paesi, pure attraverso i grandi dolori del deserto. Il Mediterraneo non può essere solo la tomba di tanti immigrati. Questo mare non ci parla solo degli arabi e degli europei, ma ci riporta al grande retroterra africano nero. 
Per me l’immigrazione è rivelatrice di pezzi di Africa, Stati, società, speranze che crollano. Lo dico perché conosco e conosciamo l’Africa: infatti siamo in circa venticinque paesi con comunità di gente del luogo e ci accorgiamo dei problemi. In Europa siamo innanzi a un’invasione di disperati o di gente che abbandona un mondo in cui non crede più e cerca il suo futuro nel mito dell’Europa. 
Nel 1999, due giovani della Guinea Conakry, Yaguine e Fodè (15 e 14 anni), furono trovati morti assiderati nel vano del carrello d’un aereo proveniente dal loro paese, atterrato a Bruxelles. La speranza era di trovare un paese dove i giovani possano vivere bene (e anche fare sport – aggiungono): “…è alla vostra solidarietà e gentilezza che noi gridiamo aiuto in africa. Aiutateci, soffriamo enormemente in Africa, aiutateci, abbiamo problemi e i bambini non hanno diritti. A livello dei problemi abbiamo: la guerra, a malattia, il cibo ecc.”. I due scrivevano: “Dunque se vedete che ci sacrifichiamo a rischio della vita è perché soffriamo troppo in Africa e abbiamo bisogno di voi per lottare contro questa povertà e mettere fine alla guerra in Africa… Nonostante questo vogliamo studiare e vi chiediamo di aiutarci a studiare per essere alla fine come voi in 
Africa…”. 
Vi ho fatto ascoltare queste voci, perché sono quelle di tanti africani. Ma sappiamo che il nostro paese ha ridotto gli aiuti allo sviluppo passando al di sotto degli stati Uniti. Solo la CEI – la Conferenza Episcopale Italiana – resta con un forte impegno in questo senso. Il problema non sono solo gli aiuti. Bisogna cominciare a pensare l’Europa in maniera più prossima all’Africa. Ne ha parlato varie volte il presidente Ciampi. Si deve cominciare a pensare in termini di Eurafrica, cioè di collegamento tra il vecchio continente e l’Africa in maniera solidale, chiedendo agli africani di gestire responsabilmente le loro crisi, ma anche essendo presenti. Tanto le crisi africane finiranno per scaricarsi sul nostro continente – come avviene – sulle regioni più prossime. E, d’altra parte temo che l’ira dei poveri possa trovare un Bin Laden o un’ideologia di lotta. 
Sant’Egidio, anche se non in Sicilia, ha una geopolitica di azione e di legami collocata nel Mediterraneo, attenta all’africa. C’è un genio della Sicilia che ci è connaturale. Infatti proprio una grande isola sa che non si può isolare; che vive di relazioni e di apporti; che deve coltivare la sua identità, mentre incontra tanti e li accoglie, gente facile o meno facile. E’ un genio maturato nella storia, espresso nella cultura, che diventa anche carattere della gente. Sant’Egidio vuol essere, dovunque si trovi una sua Comunità (a Roma o in Sicilia), un luogo dove i problemi dell’Africa non sono estranei. Noi europei, le nostre regioni, hanno bisogno di una missione. Perché senza una missione non si esiste. Sono convinto che la missione sia, oltre quella di agire bene nei confronti dei propri vicini, proiettarsi al di là del mediterraneo verso l’Africa. Questo darà dignità e identità al nostro paese. E questa è anche l’anima cristiana che noi possiamo dare alla politica. 

Un tempo difficile
Siamo in un tempo difficile. Gli orizzonti del mondo non sono tranquilli. Talvolta il cielo è turbato dai lampi del terrorismo o dei conflitti. Questo giustifica il pessimismo. Ma le generazioni che ci hanno preceduto non hanno affrontato tempi più duri? E la guerra mondiale? E la minaccia atomica? Certo oggi vediamo tanto del mondo e non abbiamo in mano tutte le soluzioni per tanti problemi aperti. Non bisogna credere a chi le esibisce. Il confronto con l’islam ci potrà far soffrire e sarà un passaggio difficile. Ma è mia ferma convinzione (e non solo mia) che il grande confronto di civiltà per la nostra Europa verrà, nei prossimi decenni, da quello con mondi davvero altri, in piena crescita economica e giganti demografici, come la Cina e l’India, Cindia. “Quando la Cina si veglierà, il mondo tremerà!” – diceva Napoleone. E forse è venuto il tempo di tremare. Non la lotta con un nemico ci darà garanzie per il futuro. Ma le garanzie verranno dalla saldezza con cui saremo uomini. Se saremo uomini, se saremo umani, nella nostra città, e proiettati nel mondo. 
In questo tempo difficile, non ci sono soluzioni per tutto. Ma bisogna tener fermi li orientamenti decisivi della nostra vita, non sperderci in inutili conflittualità, avere chiarezza interiore. Lo dico con grande rispetto per credenti di altre religioni o per laici, questo è un bel tempo per essere cristiani. Sì, lo è: un bel tempo per essere cristiani. Infatti essere cristiani diventa una fonte di umanesimo: un impegno per evitare le derive verso la disumanizzazione. E’ un impegno per difendere tutto quello che di più prezioso c’è al mondo: la vita, tutta la vita, nella sua debolezza nascente e declinante, ma anche nelle sue potenzialità e risorse, quella di tutti, amici o ostili. E’ un impegno a non cedere al pessimismo, che diventa il modo di pensare solo a sé e la rinuncia ad avere uno sguardo su quello che accade vicino e lontano. E’ un bel tempo per essere cristiani: per vivere personalmente la speranza in una vita generosa e comunicare la speranza. 
Vorrei concludere con un ricordo di un nuovo martire che dice meglio di me quanto intendo suggerire: Giuseppe Girotti, domenicano italiano morto a Dachau nel 1945. era un biblista: noto per il suo amore per i poveri, si era impegnato per gli ebrei. Per questo era stato arrestato. Tenne nel campo una meditazione prima di morire: “La Chiesa fu, è e sempre sarà l’unico rifugio del senso di umanità, di amore e di misericordia; rifugio della verità, dei principi della retta ragione, della civiltà e della cultura… Ora, questa (è la) straordinaria missione della Chiesa nel presente gravissimo momento della storia…”. 
Uomini che credono, che operano generosamente, che vivono con il cuore, che diffondono comportamenti umani e solidali… sono loro che porranno le basi di un nuovo umanesimo nella vita di tutti noi. 

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